I delfini per orientarsi preferiscono "toccare" il mondo, anziché vederlo
Secondo uno studio pubblicato recentemente su PLOS ONE, per i delfini orientarsi nello spazio funziona attraverso degli echi che questi animali emettono per ecolocalizzare, non servirebbero tanto a vedere con il suono, come spesso si è sostenuto, quanto a "toccare" con i suoni una ricognizione dei mari dinamica corretta in tempo reale.
Una metafora sensoriale
I ricercatori hanno individuato una connessione celebrale, forte e significativa tra il collicolo inferiore ( centro dell' elaborazione udiva) e il cervelletto, la struttura che nei mammiferi regola e affina il movimento. Una via neurale che sembra sostenere un ciclo serrato di azione e retroazione: ogni eco plasma il gesto eccessivo, non una visione sonora statica quindi, ma è qualcosa di simile a un' esplorazione tattile.
"Nei nostri risultati non esiste la presenza di un vera sensazione tattile, legato all' ecolocalizzazione", spiega, Peter Cook, professore associato di psicologia e scienze dei mammiferi marini all' Università di Santa Cruz, in California e autore della ricerca. Non sono stati osservati connessioni potenziate tra aree uditive e tattili.
Un passo in avanti rispetto al passato
Negli anni '70 e '80 alcuni etologici russi, dopo aver impiantato elettrodi nel cervello dei delfini e focene, avevano riferito l'attivazione della corteccia visiva, in risposta ai suoni. Si ipotizzava che il mondo esterno venisse visto dai delfini come un' immagine mentale e che gli echi servissero a darle maggiore nitidezza, ma quell' evidenza è oggi considerata sospetta: le aree visiva e uditiva in questi animali, sono adiacenti e il segnale registrato potrebbe essere stato falsificato. Per chiarire la questione, il gruppo di Cook ha analizzato i cervelli di tre odontoceti, cetacei dotati di ecolocalizzazione, confrontando con quello di una balenottera boreale, privo di sonar ma evolutivamente affine.
Tutti i campioni provenivano da animali già deceduti in collezioni anatomiche. Un' approccio post-mortem che seppur limitato, resta tra i pochi praticabili allo stato attuale. Ottenere dati cerebrali in vivo dei delfini è molto complesso. L' elettroencefalogramma non raggiunge le aree profonde che interessano. Le immagini funzionali richiederebbero animali addestrati e condizioni ideali. E ci sono ovvie barriere etiche e legali all' impianto di dispositivi invasivi. I ricercatori hanno quindi, utilizzato una tecnica di imaging, che traccia il movimento delle molecole d' acqua, lungo le fibre nervose, ricostruendo, tramite la velocità di scorrimento, le connessioni tra le aree celebrali coinvolte nell' elaborazione sensoriale.
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